È festa persino in galera e dentro alle case di cura
soltanto che dopo la festa la vita ritornerà dura
ma oggi baciamo il nemico o quelli che passano accanto
o l'asino dentro la greppia Natale il giorno più santo…
La Sacra Famiglia - Roma, Basilica di Santa Maria degli Angeli |
Riascoltando Bertoli in vena di commemorazioni, mi chiedo come sarà questo Natale in tempo di crisi. Non è difficile prevedere trasmissioni e telegiornali in cui signore piene di pacchetti ci ripeteranno, uscendo da mercati e centri commerciali che sì, quest’anno è stato difficile soddisfare i desideri di tutti i nipoti e si è dovuto ridurre, tagliare… Babbo Natale porterebbe i doni, ma Monti porta via le speranze e allora bisogna adattarsi… ma adattarsi a cosa?
Oggi, per molte famiglie italiane il Natale non significa più ciò che dovrebbe invece significare. La poesia da Baci Perugina che sottostà a tanti messaggi e auguri “di stagione” (seasonal greetings, come recitano ormai molte politically correct Christmas cards) ha talmente mielato l’occorrenza da renderla una melassa di luci di vetrina, fiocchetti colorati e stress da ipermercato affollato. Resisteva un tempo il baluardo del pranzo di famiglia, a cui si doveva partecipare obbligatoriamente tutti, stroncato, quest’ultimo, non tanto dal caro vita quanto dal frammentarsi e moltiplicarsi dei nuclei familiari.
È nato, si dice; ma se Monti continuerà con la sua politica dei tagli, cosa resterà del nostro Natale? Non sarà che si proverà persino vergona a presentarsi sotto l’albero (anche il presepe è un po’ demodè) a mani vuote o soltanto mezze piene? Meriterà ancora celebrarlo un Natale da poveretti? Non sarà che dovremo persino ritornare ad andare a Messa di mezzanotte per scoprire un altro pezzo di poesia ormai perduta?
La riscoperta del Natale
Eppure, verrebbe da chiedersi: se il Natale in tempo di crisi corre il rischio di essere un Natale sottotono, come lo avrà celebrato finora la maggior parte delle persone nate e vissute (poco e male) in parti del mondo meno privilegiate delle nostre? Oggi, abbiamo tra le mani una possibilità: quella di rivalutare il nostro Natale, di ripresentarlo per quello che veramente è: un’azione di grazia del Dio amore, di un Padre che tanto ha amato il mondo da dare il suo unico Figlio per la salvezza di tutti, che non ha rinunciato alle sue prerogative divine, ma si è fatto come noi, fango nel fango, per poterci tirare fuori dalla melma del peccato, della fragilità, della paura e restituirci il vestito buono della dignità.
Natale è la festa del poco, di ciò che è piccolo, un evento rappresentato, come in un gioco di parole, dalla stalla e dalla stella di Betlemme: un luogo di miseria in cui trova posto Dio che nasce. E se oggi il poco sembra pervadere la nostra vita come mai prima, ecco che il NataIe è anche la festa nostra, che può toccarci nell’intimo, nel profondo, e se davvero lo fa ci può cambiare per sempre. I racconti della natività, sono estremamente duri e parlano di uno scenario di oppressione in cui si muovono i personaggi della storia più famosa e più amata; una storia dentro ai cui contorni sono racchiuse le esperienze di tutti, di sempre. Non per nulla, nel concepire a Greccio il primo presepe, San Francesco intendeva rappresentare l’istante iniziale della vita di Cristo per sentirne sensibilmente, sulla propria pelle, l’esperienza del nascere, e del farlo in quel contesto di povertà assoluta. La “Vita prima del Santo” di Tommaso da Celano (cap. XXX), mette nella bocca di Francesco “(…) vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello».
Affliggere i consolati
La Chiesa, oggi, ha un’opportunità d’oro: quella di approfittare del Natale per 1) rileggere la crisi che stiamo vivendo in un’ottica di fede e di provvidenza; 2) dare spessore e consistenza alla vocazione evangelizzatrice che oggi le viene chiesto a gran voce di confermare.
Il bambino di Betlemme diventa un richiamo ai nostri stili di vita, un segno ed esempio di conversione profonda da tutto ciò che ci rende lenti, fisicamente e mentalmente obesi, rigorosamente chiusi su noi stessi, sui nostri bisogni e la soddisfazione degli stessi. Guai se la crisi attuale acuisse ulteriormente una tendenza da cui purtroppo ci dobbiamo sempre difendere, una tendenza allegoismo capace, a breve termine, di logorare i rapporti personali e sociali in nome del vantaggio personale.
Al contrario, le scienze moderne definiscono il momento critico come il punto in cui un organismo (anche sociale) malato si dirige verso la sua guarigione o si avvia gradualmente verso la morte. La fede accetta questa interpretazione di crisi fino al momento in cui quest’ultima si scontra con il paradosso che fonda il cristianesimo stesso: la “guarigione” , cioè, passa attraverso un percorso di morte e rinascita che segna tutta la vita battesimale del credente. I racconti del Natale privi dell’ispirazione pasquale attraverso cui sono stati scritti diventano favole per bambini, importanti in un tempo della nostra vita, ma poi abbandonate come inutili.
La crisi marca quindi un turning point, un “o la va o la spacca” che rappresenta contemporaneamente un invito alla conversione e un appello alla missione. Il cambio interiore che il Natale ci impone non vuole cancellare l’impegno ad eliminare le strutture ingiuste, che fanno sì che a pagare oggi gli effetti della crisi siano coloro che hanno meno; Anzi, l’impegno, a spendersi nella vita politico-sociale in cui ci troviamo diventa una conseguenza di un’opzione radicale in cui ci si affida nuovamente a Dio e alla sua azione nella storia. Dio nasce povero per liberare i poveri. Nasce migrante, per viaggiare sugli impervi cammini della migrazione di oggi, sentieri che sovente incrociano le rotte di chi sfrutta, schiavizza. Anche nel suo “farsi” uomo, Cristo è icona del Padre, amore misericordioso per l’umanità da redimere. L’incarnazione è quindi annuncio, testimonianza.
Se fossimo capaci anche noi di tradurre il bene che vorremmo, la pace che sogniamo, l’amore che agogniamo in azioni altrettante azioni concrete, faremmo del Natale una cosa diversa, piena di senso nonostante la crisi… nonostante tutto, non il momento in cui dobbiamo essere buoni, ma la celebrazione della nostra opzione di vivere la vita in modo buono. Usando una frase di Don Tonino Bello, il 25 dicembre non deve essere il giorno in cui, magari per rigurgito di buonismo, si decide di allargare il proprio cuore per consolare un afflitto, ma deve essere piuttosto il momento in cui la Parola di Dio, facendosi carne, “affligge i consolati” (e noi tra loro) dando alla loro vita rinnovato slancio per una missione di annuncio e testimonianza. Un Natale così avrebbe potuto dare ben altro titolo alla canzone di Bertoli, non “È nato, si dice”, ma piuttosto “È nato… e si vede!”.
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