Martedì scorso, 25 giugno, si è celebrato il 63°
anniversario dell'inizio della guerra di Corea, data resa particolarmente
significativa quest'anno, in quanto segue di poche settimane il difficile
periodo fatto di provocazioni e minacce di ritorsione vicendevolmente fra il
Governo di Pyongyang, gli Stati Uniti, Seoul e i loro alleati nella zona Asia
Pacifico. All'evento è stata ovviamente data un'abbondante copertura mediatica,
con articoli di approfondimento ed editoriali molto interessanti. Tra i vari articoli
ne sottolineo due, pubblicati entrambi dal The
Korea Herald, il principale quotidiano sudcoreano in lingua inglese.
Il primo, intitolato “Not forgotten” (non dimenticati),
risale all'edizione del fine settimana precedente e riportava la testimonianza di un ex
prigioniero di guerra sud coreano, catturato nei giorni immediatamente
precedenti la fine del conflitto e deportato in Corea del Nord dove è rimasto
per decine di anni a lavorare forzatamente nelle miniere. Soltanto dopo un
lungo periodo e tra mille peripezie è riuscito a ritornare al Sud e a
ricongiungersi con ciò che restava della famiglia e degli amici di un tempo. Il
racconto rivela un quadro impressionante ed ancora molto vivo di un paese
diviso con il righello e senza misericordia dopo quello che è stato il più
sanguinoso conflitto combattuto negli anni della "guerra fredda". Tre
cose colpiscono di quell'articolo: la prima è la quantità delle persone
coinvolte; un rapporto delle Nazioni Unite stima intorno alle 82 mila unità i
soldati sudcoreani dispersi in azione di guerra, di cui molti si presume siano
rimasti prigionieri di Pyongyang. Soltanto poco più di 8 mila sarebbero coloro
che sono stati restitutiti dalla Corea del Nord e hanno potuto fare ritorno al
Sud. Secondo, l'incapacità della diplomazia di liberare queste persone che, di
fatto, si sono costruite loro malgrado una nuova esistenza sotto il regime nordcoreano.
Infine, l'impatto di questi reduci una volta liberati, con una patria
completamente cambiata e che era stata loro descritta come un inferno in terra
dalla propaganda del regime. Lo shock emotivo e culturale di chi riesce ad
attraversare la frontiera e raggiungere Seoul è un qualcosa di veramente
impressionante, che richiede un lungo periodo di accompagnamento psicologico.
Stride dopo la lettura di questo reportage, il venire a
conoscenza del fatto che in Corea del Sud una percentuale abbastanza bassa di
persone ricorda fatti inerenti la guerra che di fatto spezzato in due il Paese
e con esso l'esistenza di tante famiglie. Altro che “not forgotten”. Oggi, secondo
la statistica pubblicata dallo stesso quotidiano il giorno seguente, più del 30% degli adulti non
ricorda la data di inizio del conflitto, percentuale che supera il 50% quando
si coinvolgono i giovani. Un dato che fa pensare. La rimozione della memoria
non è mai un primo passo nel cammino della riconciliazione. Perdonare e
riconciliarsi sono traguardi da raggiungersi con la sofferenza del ricordo, del
riconoscimento della responsabilità, di una scelta di giustizia. L'ignoranza e
la dimenticanza, al contrario, possono soltanto generare il mostro della
perpetuazione storica dello stesso identico errore.
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