sabato 15 marzo 2014

Contro il logorio della vita moderna: 10 Consigli di Giuseppe Allamano (3)

Amate una religione che vi offre le promesse di un'altra vita e vi rende più felici sulla terra

Se una pillola non aiuta a star bene,  perché prenderla? Questo semplice e lapalissiano principio vale anche per le “pillole” dell’Allamano: prima di somministrarle bisogna essere perlomeno convinti del loro effetto benefico; la bontà di un prodotto va certificata con tanto di risultati.
La pillola di questo mese parla di felicità, il fine ultimo del cammino esistenziale di ognuno. Tutti gli uomini vogliono essere felici e ricercano con sforzo come esserlo, anche se molte volte danno all’oggetto della loro ricerca un nome diverso.  Esiste davvero una pillola che ai aiuti ad essere felici, visto e considerato che molte persone non si possono, oggi, dichiarare certamente tali?
Chi crede dovrebbe avere una risposta pronta da offrire, una soluzione in grado di soddisfarlo nel suo percorso di ricerca e pronta per essere condivisa con tutti: il cammino di fede fa dire al credente che la meta agognata non può essere altri che Dio, che è lui la vera felicità.  Il desiderio di Dio, per il cristiano, è scolpito a chiare lettere nel cuore dell'uomo, e  Dio, da par suo, non smette un secondo di attirare a sé la sua creatura, proprio perché la vuole felice.
Chiaramente ci si trova di fronte ad una difficoltà: se Dio è la felicità e il suo profondo desiderio è che tutti gli uomini siano felici, perché, di fatto, la cosa non si verifica? In effetti, il cristiano è convinto che non sia sufficiente il puro e semplice sforzo dell’uomo per raggiungere il Dio- felicità: la felicità è grazia, dono. Tuttavia, per poter ricevere tale regalo, l’essere umano deve collaborare attraverso delle scelte concrete di vita che gli permettano di aprirsi alla grazia che Dio gratuitamente e generosamente offre.  L’a
zione umana non è l’unica causa, e neppure la causa principale del conseguimento della felicità, ma è tuttavia indispensabile proprio perché il dono di Dio possa essere liberamente accolto.
Questa, in poche parole, è la teoria; in pratica le cose non sono così semplici. Oggi, in effetti, il mondo Occidentale è abbastanza scettico rispetto a quanto passa il nostro convento in materia. In uno dei suoi ultimi saggi, il filosofo Umberto Galimberti analizza il fenomeno della perdita del sacro che colpisce la cristianità in generale, rendendo il cristianesimo, agli occhi di coloro ai quali si dirige, una religione dal cielo “vuoto”, che rivela il nulla. La de-sacralizzazione del mondo ha fatto perdere nell’uomo la fiducia nella possibilità di un Dio trascendente, totalmente altro. Se Dio è felicità, da questa felicità il mondo si è separato, ne ha decretato la morte, l’ha rescissa dalla propria storia.
Dire che la felicità risiede in Dio ad un interlocutore che da Dio si è separato significa iniziare un dialogo tra sordi che non porta a nulla. Eppure, se ci pensiamo con attenzione, molte delle nostre catechesi, delle omelie che ascoltiamo o anche dei contenuti religiosi che portiamo nelle nostre discussioni di tutti i giorni sono impostati su questo postulato, calato dall’altro come una verità che dovrebbe essere inoppugnabile per chi crede, ma che lascia invece le altre persone scettiche o, nella maggior parte dei casi, completamente indifferenti.
La pillola dell’Allamano di questo mese, ci aiuta ad affrontare il tema da un altro punto di partenza, sicuramente più evangelico, con un approccio pedagogico “dal basso”, che tiene conto del punto di partenza dell’altra persona e non solamente delle nostre convinzioni personali. Curiosamente, la formulazione non è propriamente “farina del suo sacco”, ma ha bensì un’origine addirittura papale.
Giuseppe Allamano con i primi quattro missionari inviati in Kenya
La frase contenuta nella “pillola” di oggi, è stata scritta da Giuseppe Allamano in una lettera indirizzata ai missionari del Kenya, datata 2 ottobre 1910. In questa lettera l’Allamano ricordava ai propri missionari che se desideravano conseguire i frutti del proprio lavoro dovevano far sì che tale lavoro fosse: perseverante, concorde e illuminato. I primi due aggettivi non necessitano qui di grande approfondimento, mentre è proprio a proposito di quest’ultima caratteristica che il fondatore ci offre la sua pillola
L’accento  è posto su una questione di metodo  missionario che l’Allamano voleva partisse da un contatto ravvicinato con la gente, i suoi bisogni e i suoi problemi. Tale metodo aveva avuto la necessaria consacrazione grazie al Decreto di approvazione da parte di Propaganda Fide e alle parole benedicenti di Papa Pio X, riportate dall’Allamano nella lettera sopraccitata e in cui, lodando e approvando il metodo missionario dell’Istituto, il Pontefice esprime il seguente concetto: “Bisogna degli indigeni farne tanti uomini laboriosi per poterli fare cristiani: mostrare loro i benefici della civiltà per tirarli all’amore della fede: ameranno una religione che oltre le promesse d’altra vita, li rende più felici su questa terra”. Più felici su questa terra: prima di fare il cristiano occorre fare l’uomo: un uomo “laborioso”, capace di apprezzare i “benefici della  civiltà” ed essere quindi anche attratto all’amore della fede.
Un approccio di questo tipo impegna oggi il cristiano a due livelli. Il primo è quello della testimonianza. I cristiani sono chiamati ad essere testimoni della loro fede come condizione di possibilità per poter vivere una vita felice. Come scrive Enzo Bianchi, priore del Monastero di Bose, nel suo saggio Le vie della Felicità. Gesù e le beatitudini (Rizzoli, Milano 2010): “Noi cristiani dovremmo saper mostrare a tutti gli uomini, umilmente ma risolutamente, che la vita cristiana non solo è buona, segnata cioè dai tratti della bontà e dell’amore, ma è anche bella e beata, è via di bellezza e di beatitudine, di felicità. Chiediamocelo  con onestà: il cristianesimo testimonia oggi la possibilità di una vita felice? Noi cristiani ci comportiamo come persone felici oppure sembriamo quelli che, proprio a causa della fede, portano fardelli che li schiacciano e vivono sottomessi a un giogo pesante e oppressivo, non a quello dolce e leggero di Gesù Cristo (cfr. Mt 11,30)?”
Chi vive nel concreto la logica delle beatitudini assume in sé uno stile di vita, copiato sulla matrice dello stile di vita incarnato da Cristo. Siamo, certamente, al limite del paradosso cristiano. La sequela di Cristo è esigente, significa passare per la porta stretta, abbracciare la croce che può assumere nel concreto diversi aspetti: quello del servizio, della sofferenza, dell’impegno radicale e senza compromessi, persino quello del martirio. Ciononostante, le beatitudini, la Magna Charta del cristiano, le nuove tavole della legge che esprimono l’annuncio sintetico della Buona Novella sono, in sé, una vera e propria chiamata alla felicità.
In una società come la nostra dove l’indifferenza e il relativismo esprimono una chiara mancanza di senso nei percorsi esistenziali delle persone, le beatitudini sono un aiuto a vivere con consapevolezza la propria vita, nella ricerca di un perché capace di illuminare di senso il nostro agire, il nostro vivere e il nostro morire e, una volta realizzato è capace di portare alla felicità.
Il secondo livello consiste invece nello sforzo di agevolare coloro che incontrano più difficoltà ad essere felici. È  il livello della consolazione, che consiste nel mettersi a fianco e camminare con coloro che sempre rimangono ai margini, attardati a causa del peso di esistenze faticose. Come fare a pronunciare la parole felicità di fronte a qualcuno che vive una vita di scarto o si sente in cuor suo di sprecare la propria esistenza?  Eppure sono proprio queste le persone che esigono un inizio di felicità già su questa terra. Lo esige il senso di giustizia che sta alla base di una vita serena, pacifica e, di conseguenza, felice. Il povero che non riesce ad uscire dal ciclo di miseria in cui è entrato, il malato che si scontra con l’impossibilità di curare la sua infermità o di lenire la sofferenza, l’afflitto che non riesce a sciogliere il nodo che gli attanaglia il cuore non possono accontentarsi, loro e gli altri come loro, di ripetersi “piove sempre sul bagnato”.
La Scrittura ci dice che piove sui giusti e sugli ingiusti e nel rispetto di questa verità non può mancare l’impegno del cristiano a trovare il modo di far sentire felice, già in questo mondo, le persone che soffrono.
Padre Godfrey Msumange
La pillola non può essere un palliativo. Il Vangelo non serve come cura placebo. Papa Francesco, sin dall’inizio del suo pontificato è stato molto in sintonia con questo approccio e ha pubblicato la sua prima Esortazione apostolica intitolandola “Il Vangelo della gioia”. Il cristiano deve essere un uomo gioioso, felice della sua scelta, della sua vocazione, del sì detto senza ripensamenti al Signore. Tale gioia, sperimentata in questa vita e testimoniata nel quotidiano diventerà motivo di speranza e gioia per gli altri, aprendo finestre nelle chiuse camere di dolore e dando scampoli di vita felice a chi invece aveva ormai perso la speranza di ritrovare una ragione per andare avanti.
Altre vie non sono possibili se vogliamo che la felicità fragile ed episodica che possiamo sperimentare in questa vita porti alla felicità solida e duratura promessaci da Dio come premio per il “sì” da noi dato al suo programma di salvezza. Per esempio, l’illusione occidentale di essere felici grazie al benessere, alla possibilità di pagare occasionali momenti di beatitudine sta venendo meno giorno dopo giorno. La crisi che l’Europa (e non solo) sta attraversando mette a dura prova la  pretesa di poter eternamente difendere a costo zero l’agio e il benessere che costruiti in questi anni.

Il consiglio spirituale che l’Allamano ci propone per questo mese ci invita invece a scoprire con le persone che incontriamo, che la felicità si costruisce insieme, giorno dopo giorno, nella buona e nella cattiva sorte, facendo uscire dalla nebbia un raggio di sole alla volta, fino ad ottenere la previsione di una giornata finalmente serena.


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