venerdì 30 maggio 2014

Alla Scuola dell’Asia

da "Da Casa Madre", giugno 2014

Mentre questo numero di “Da Casa Madre” esce online, il Continente Asia IMC vive un momento di fermento tutto particolare. Presso la nostra comunità di Arveiheer, in Mongolia, si sono appena conclusi gli Esercizi Spirituali ed è in corso di svolgimento l’Assemblea di tutti i missionari della Consolata che lavorano in Asia. Da poco si è anche conclusa la visita a Taiwan che dovrebbe portare tre missionari dell’Istituto a lavorare sull’ "isola bella” di Formosa. Tutta materia per il prossimo numero, in cui, una volta assimilato e redatto il materiale del viaggio, si potrà raccontare in dettaglio gli esiti dei tanti incontri che hanno animato il mese di maggio.
Oggi, preme ricordare le ragioni che stanno alla base di questi incontri e, allo stesso tempo, raccontare le sensazioni che animano la Direzione Generale, e in particolare il sottoscritto come Consigliere incaricato del continente asiatico, nei confronti della nostra missione in Asia.
Innanzitutto, dobbiamo confessare che quando il Capitolo Generale ha chiesto all’Istituto di aprirsi con decisione al Continente Asiatico (XII CG n. 47) e alla Direzione Generale di lavorare ad un Progetto che aiutasse l’IMC a meglio comprendere la realtà asiatica, tutti noi ci siamo trovati abbastanza impreparati. Il sottoscritto in modo particolare.
Se il lavoro del Consigliere è quello di offrire consigli (lapalissiano, forse, ma nella sostanza questa è la realtà) è stata questione di un attimo realizzare come la mia esperienza passata non mi avrebbe certamente aiutato più di tanto a svolgere il lavoro che mi attendeva nel migliore dei modi. Come Direzione, sempre abbiamo constatato ciò che il Capitolo Generale ha sottolineato con forza: l’Istituto oggi non conosce a sufficienza non soltanto l’Asia, ma la sua stessa dimensione asiatica. Per ovviare a questo problema era necessario esporsi alla realtà del continente, e i migliori alleati a questo scopo non potevano essere che i confratelli che in esso lavorano.
Ecco perché, nel giugno del 2012, la Direzione Generale al completo ha vissuto un mese intero in Corea, partecipando all’Assemblea Asiatica che si è tenuta a Incheon, una delle città satellite dell’immensa periferia di Seul. È stato il primo importante passo verso una conoscenza reciproca, uno scambio di idee proficuo, un inizio di lavoro insieme, sintonizzati sulla stessa linea d’onda.
Da quella Assemblea è emersa forte la convinzione che l’Asia può e deve essere una delle dimensioni in cui si articolerà il futuro dei missionari della Consolata. Come il nostro Superiore Generale, padre Stefano, ama ripetere: “L’Asia non ha certamente bisogno dei missionari della Consolata; siamo noi, oggi, ad avere bisogno dell’Asia per rafforzarci nel nostro carisma ad gentes, come missionari di prima evangelizzazione”.
Dalla stessa Assemblea sono venuti i criteri per una possibile nuova apertura e ne è scaturito anche il nome: Taiwan. La scelta di visitare l’isola e successivamente di eleggerla come possibile nuova destinazione nasce dal discernimento di quei giorni, sulla base di argomenti che abbiamo ritenuto essere importanti:
·         la possibilità di aprirsi al mondo e alla cultura cinese, bisogno imprescindibile, oggi, per un Istituto globale come il nostro, continuamente esposto all'incontro con “il Dragone” in varie parti del mondo, non solamente in Asia;
·         la vicinanza geografica e una certa affinità culturale con le nostre attuali presenze in Asia, tali da poter garantire uno scambio di esperienze arricchente e proficuo;
·         la possibilità, in un futuro certamente non prossimo, di poter accedere a studi universitari che possano aiutare la riflessione dell’Istituto, cosa certamente possibile per la grande offerta accademica che Taiwan presenta.
Due anni sono trascorsi da allora e possiamo dire che tanta acqua è passata sotto i ponti. Visitare per la terza volta le nostre comunità in Corea e Mongolia è stato un segno per i nostri missionari della vicinanza che la Direzione Generale vuole far sentire loro, ma è stato di grande beneficio soprattutto per il sottoscritto. Mi ha aiutato a dare un senso alle letture, un immagine o un volto alle righe di un libro stampato o di un articolo online. Mi ha aiutato a vedere con occhi diversi realtà che prima facevo fatica a comprendere: una missione fatta di quotidianità anonime, dove il missionario non è il protagonista, ma uno dei tanti, se non “lo straniero”. A chi osserva dall'esterno una realtà complessa come questa è facile non riuscire a capire, lasciarsi vincere dai pregiudizi, semplificare al massimo i ragionamenti per poter giudicare. A me, per lo meno, è successo così.
Sia che tu la viva dal di dentro o cerchi di percepirla dall'esterno, quella in Asia è una missione da scoprire poco alla volta e con tempi molto lunghi, perché difficili sono le lingue e complesse le culture, dove si deve assumere obbligatoriamente un passo diverso rispetto a quello a cui si è abituati in altri continenti. L’Asia fa scoprire il nervo vivo dell’impotenza, del sentirsi piccoli, sostanzialmente inutili e in alcuni casi non ben accetti. Sbatte davanti al viso del missionario la moltitudine delle sue genti, illudendolo con un’abbondanza che questi può sovente soltanto sbirciare dal portone delle sue chiese vuote.
Bacheca parrocchiale a Taiwan
Tuttavia, la missione in Asia è anche altro, ed è bene dirlo. Se mai nel passato abbiamo fatto un errore è stato quello di mitizzare la missione in Asia e alcune delle sue difficoltà (la durezza nell'apprendere la lingua coreana, la rigidità del lungo inverno mongolo, la solitudine, solo per fare qualche esempio) senza sottolinearne abbastanza gli elementi che rendono questa missione davvero speciale, al punto che ogni missionario dovrebbe essere invogliato almeno a prendere in considerazione il fatto di potersi cimentare con queste realtà.
Segnalo alcune cose che colpiscono il sottoscritto, soltanto come esempio per far capire cosa intendo quando dico che la missione in Asia è particolare, e proprio perché particolare anche affascinante.
L’aspetto culturale ad esempio, che obbliga colui che va in Asia a studiare molto per poter capire e riuscire ad orientarsi; per poter dominare la lingua innanzitutto, ma non solo. Geografia e storia tornano ad essere materie importanti, come ai tempi della scuola. Bisogna apprezzare il difetto della curiosità: essere curiosi come lo erano i nostri primi missionari e come altre volte lo siamo stati nel corso della nostra storia centenaria, quando ci siamo trovati di fronte all'altro e alla sua differenza.
All’elemento culturale si interconnette l’aspetto religioso. Come può un missionario non trovarsi a suo agio in un contesto dove miliardi di persone credono in un qualcosa o in qualcuno che si presenta in forme per te irriconoscibili… ? Come può non incuriosire e affascinare una persona che, in tutta naturalezza, si sposta da un piano metafisico taoista, si comporta eticamente come un

confuciano, assume una religiosità e una spiritualità che hanno a che vedere con il buddhismo, paga l’offerta a un paio di dei locali e fa una piccola devozione anche di fronte all’immagine della Madonna, se per caso capita sul suo cammino?

martedì 20 maggio 2014

Silent Sky

Torno per la terza volta in Mongolia, nel breve spazio di due anni. Vi sono cose che uno giocoforza inizia a riconoscere. L'odore, per esempio. Lo avverti all'aeroporto facendo la coda davanti agli sportelli dell'immigrazione, lo senti per le scale del condominio dove abitano i nostri, lo percepisci per la strada pur essendo un odore di chiuso che diventa ancora più forte nel bus che da Ulaan Baatar ci porta ad Arveiheer. 400 chilometri, sette ore, che diventano otto a causa delle condizioni della strada. Non si può definire, si può soltanto fare come i Sommeiller con il vino, anche se preferirei piuttosto mettere il naso in un calice di Barbaresco. Sa di tabacco, di legna umida bruciata, di feltro bagnato... non si può definire: è fragranza mongola.
Il viaggio ad Arveiheer lo faccio per la prima volta su un bus di linea: di linea retta, perché di curve ce ne sono poche. Siamo in undici questa volta, un "gruppo vacanze" come mi capita raramente di trovare o di formare. Due suore e nove preti, tutti turisti, come dobbiamo ripetere a mo' di mantra affinché la nostra risposta quadri con il VISA che abbiamo ricevuto. I mongoli non vanno tanto per il sottile in fatto di visti, soprattutto per chi permane sul territorio. La paura di essere invasi da commercianti, multinazionali minerarie e predicatori stranieri ha fatto loro stringere le maglie della burocrazia e li ha resi severi con gli stranieri che chiedono i lavorare nel loro paese. Si possono anche capire: tre milioni di abitanti sparsi su un terreno grande cinque volte l'Italia si possono anche disperdere, mimetizzandosi con il resto della popolazione.
Oggi, neppure il panorama riesce a tenere completamente svegli. Ci riescono di più le risate dei viaggiatori che guardano le pantomime che la tele a circuito chiuso propone sena sosta. Ogni tanto l'autista li intervalla con pezzi di musica mongola e la situazione migliora un pochino. Oddio, il simil-pop mongolo fa rimpiangere le scenette stile parrocchiale di prima, ma alcuni brani di musica tradizionale, con gli sfondi paesaggistici da guida turistica si fanno ascoltare con piacere.

Ogni tanto mi metto le cuffiette e mi ascolto un po' della musica portata da casa. Il desiderio di inculturazione sarebbe forte, ma a tutto c'è un limite invalicabile, armonicamente rappresentato dal simil-pop di cui sopra. Per fortuna c’è Haya nel mio repertorio. Haya è una band cinese, della Mongolia interna, regione politicamente sotto il governo di Pechino. La sua cantante, Daiquing Tana, ha una voce stupenda e offre una bella reinterpretazione in chiave moderna delle melodie mongole classiche. Ascoltare la struggente "Silent Sky" mentre si attraversa la steppa, in questo scenario dove le nuvole toccano la terra è un'esperienza che consola e mi rassicura ancora una volta sul fatto che "viaggiare" è una delle esperienze più ricche e profonde che si possono vivere e devo essere grato per avere l'opportunità di farlo in luoghi così unici.


sabato 17 maggio 2014

Nastri gialli

Domenica 13 febbraio 1983 un incendio divampato a causa di un corto circuito nel cinema Statuto di Torino provocò la morte di 64 persone: 31 uomini, 31 donne, un bambino e una bambina. Chi è di Torino ed appartiene alla mia generazione non può dimenticarsi di quell'avvenimento. Si vivevano tempi duri allora, anni bui di crisi e di terrorismo. Torino aveva già pagato un prezzo alto su entrambi i fronti e le toccava vivere questa ennesima tragedia.
Fu una domenica di tristezza, di cordoglio. Un professore della scuola in cui andavo anni prima perse un figlio o una figlia... lo sentimmo vicino. Ricordo le telefonate a casa per avvisare che quella domenica si era andati in altri posti. Io quell'anno ero militare, e quel fine settimana ero in licenza;lo stesso film l'avevo visto un mese prima a Verona con i miei commilitoni: era un film francese, si intitolava "La capra".
Non lo sapevamo ancora, ma quella domenica di febbraio ci avrebbe cambiato la vita. 64 persone morirono per asfissia in un locale trasformatosi improvvisamente in una gabbia di fumo, una camera a gas da cui non riuscirono a fuggire. L'assurdo nella tragedia fu che lo Statuto era un cinema in regola per la normativa del tempo, come un'ispezione sulla sicurezza aveva certificato poco  tempo prima dell'incidente. Non era il cinema fuori posto, erano le regole a dover essere cambiate.
Oggi, penso alle vittime della sciagura navale che ha visto affondare un traghetto con a bordo più di 450 persone (il numero ufficiale non è ancora unanimemente riconosciuto, così come ancora in dubbio è il numero delle vittime e dei dispersi), la maggior parte di essi studenti di scuola secondaria in gita scolastica.
In questo caso l'errore umano sembra essere chiaro ed è stato fatale, anche se, come sempre, bisognerà superare la grande emozione del momento per analizzare freddamente e analiticamente questo evento. Oggi in Corea ci si sta chiedendo come la nazione possa essere preparata ad avvenimenti di questo tipo e il dibattito porterà lontano.Per ora rimane l'emozione di tanti giovani che lasciano messaggi di condoglianze e di vicinanza per le vittime e le loro famiglie scritti su nastri gialli che trovi appesi ovunque nel centro di Seul. Sono giovani della stessa età di quelli che hanno perso la loro vita sulla nave "Sewol", per una assurda serie di circostanze; giovani che sperano che questa tragedia possa servire a qualcosa, non soltanto a provocare dolore, e come nel caso del Cinema Statuto, cambi la loro vita per sempre, in meglio.





lunedì 12 maggio 2014

Dimmi cosa coltivi e ti dirò chi sei

La rivista Science ha recentemente pubblicato uno studio antropologico e psicologico che spiega una delle ragioni del perché i popoli dell'Occidente sarebbero più individualisti di quelli orientali.
La risposta data dallo studio è di tipo agricolo: in Oriente si coltiva prevalentemente riso, mentre ad Ovest degli Urali ci si dedica prevalentemente alla coltivazione del grano. Secondo la "teoria del riso" riportata dalla rivista, una popolazione dedita prevalentemente alla coltivazione di questo cereale diventa più orientata alla collettività e incarna maggiormente uno spirito olistico grazie all'intenso lavoro che questa coltivazione presuppone, nonché alla necessità di cooperare necessariamente con i propri vicini per poter portare a termine il raccolto.
Al contrario, gli abitanti di quelle regioni dove si coltiva prevalentemente grano tendono ad agire in modo più indipendente visto che il raccolto richiede meno lavoro e non lo stesso livello di cooperazione.
Secondo gli investigatori, non bisogna essere dei coltivatori di riso o grano per assumere determinati tratti distintivi della cultura che ne deriva, ma semplicemente essere esposti ad essa. Inoltre, sempre secondo lo studio fatto, i risultati di questa analisi possono essere notati anche in un territorio geograficamente ristretto in cui vengono coltivati entrambi i cereali (un test è stato condotto fra la popolazione contadina cinese, analizzando coloro che a Nord del fiume Yangtze producono frumento e quelli che a Sud si dedicano alla coltivazione del riso).
Ora, visto che la provincia di Torino da cui provengo pare sia quella che produce il maggior quantitativo di altri cereali che non siano il riso all'interno della Regione Piemonte, dovrò iniziare a guardare con occhio maggiormente interessato quelli di Vercelli: sarà vero che nelle nostre campagne si sviluppavano delle differenze così marcate fra contadini dediti tutti alla coltivazione di cereali, anche se di  diverso tipo? Mah!!!Davanti a certi studi rimango sempre un po' perplesso.
(Fonte The Korea Herald, 12-05-2014)

lunedì 5 maggio 2014

Contro il logorio della vita moderna: 10 Consigli di Giuseppe Allamano (4)

Scegliere la mansuetudine come strada di trasformazione: una pillola controcorrente
 Al termine del Gran Premio di Australia, primo appuntamento stagionale con la Formula Uno, Bernie Ecclestone, storico deus ex machina del circo a quattro ruote, è rimasto profondamente deluso per l’impatto dei nuovi motori turbo V6, insolitamente silenziosi rispetto ai modelli precedenti. “Ridateci il rumore”, ha lamentato l’anziano Patron, dando voce ai nostalgici del frastuono provocato dalle rombanti monoposto lanciate in pista a tutta velocità. In effetti, risulta difficile pensare a una gara di automobilismo in sordina; è come sei il rumore fosse parte della sua essenza, a cui ci siamo troppo abituati. Il rombo del motore esprime la potenza della vettura, ne annuncia l’arrivo, ne segnala l’ inquietante presente passaggio, ne saluta il veloce schizzare via.
Parrebbe una metafora della nostra vita quotidiana, in cui il rumore è onnipresente: a volte inconsapevolmente prodotto, altre volte ricercato con determinazione e un velo di arroganza. Un leone ruggisce, non miagola, e una macchina da corsa deve fare rumore se vuole essere considerata come tale. Oggi il nostro quotidiano è popolato da ruggiti continui. Si ruggisce in politica con la stessa foga che una volta era riservata alle discussioni da bar del lunedì mattina. Si ruggisce nei talk show televisivi, dove si fa a gara a chi gonfia di più le vene del collo, a chi punta il dito più vicino alla faccia, a chi la spara più grossa, e sovente più grassa. La misura è diventata virtù rara, bisogna esagerare, pur di battere, annichilire l’avversario. La pretesa di aver ragione e di imporre questa convinzione con la forza ci porta ad essere molto più irascibili di una volta, agli incroci come in famiglia, a scuola come sul lavoro.
Chi urla non è consapevole della forza delle proprie opinioni e deve imporle con un surplus di rumore, proprio come quei ragazzi che truccano la marmitta del loro motorino per farlo rimbombare nemmeno avessero uno Space Shuttle da dominare con il manubrio. Va da sé che chi deve ricorrere agli effetti speciali per far valere le proprie ragioni è naturalmente più portato ad esagerare, a far diventare il dialogo una pura e semplice serie di monologhi, a trasformare il conflitto in una battaglia (che si spera resti nella sfera del verbale e non trascenda nel fisico; anche se si sa bene che “da cosa nasce cosa”…). “Il meglio del meglio non è vincere cento battaglie su cento – scrive Sun Tzu, nel suo celebre saggio L’Arte della guerra – ma bensì sottometterlo senza combattere”.  Nonostante la reverenda età (è stato scritto circa 2.500 anni fa) il testo di Sun Tzu continua ad attrarre frotte di ammiratori, soprattutto per le applicazioni che ne vengono date nel campo del management. Tuttavia, la gara a chi urla più forte e a chi mena più duro sembra confermarsi come consolidata prassi e avere molto più appeal nella vita di tutti i giorni.

giovedì 1 maggio 2014

Home sweet home

Il missionario dovrebbe essere distaccato da tutto, pronto a partire "alla bisogna", seguendo una vocazione che non ammette il guardarsi indietro. Il Vangelo in alcuni punti fa sua questa esigenza di itineranza e distacco, concetto che viene ripreso anche dal "Manuale delle giovani marmotte" ad uso del missionario. A volte, però, anche senza cercarle, arrivano ogni tanto delle piccole consolazioni. Bello è stato rientrare nella nostra casa regionale di Yeokgok dopo circa un anno e ritrovare la stanza che avevo utilizzato così come l'avevo lasciata un anno prima (beh, qualcuno una spazzata gliela aveva pur data, grazie al cielo), persino il letto era stato lasciato nel punto in cui l'avevo spostato perché mi dava l'idea di una maggior praticità. Internet è entrato immediatamente in funzione, visto che tutta la strumentazione ne ha riconosciuto una password precedentemente memorizzata.
Sono cose sciocche, capisco, ma che fanno riflettere su una delle eterne questioni della spiritualità missionaria, soprattutto nel momento in cui, come nel nostro caso, questa si coniuga con la vita religiosa. Il punto è quello di trovare un giusto equilibrio fra stabilità e itineranza. Da una parte il missionario è chiamato ad andare, dall'altra si è portati a fare casa, a costruirsi uno spazio, a segnare un terreno. Certamente, se si vuole portare a termine un progetto si esige il dare una stabilità anche al personale, non soltanto alle cose. Ed ecco che il mettere radici fa crescere l'albero in un determinato posto, più difficile da spostare. Ma al di là delle ragioni funzionali, esistono degli ancoraggi che potremmo definire esistenziali. Lo percepisco nella mia esperienza personale, in modo particolare in questi anni in cui, per il servizio che sono chiamato ad offrire, devo viaggiare molto. Parto ancora volentieri, per fortuna ma, forse è una esperienza condivisa da molti, ho bisogno di "fare casa" lì dove arrivo. E' chiaro che una vita comunitaria piena, ben vissuta, aiuterebbe non poco a trovare con più facilità questo equilibrio, Tuttavia, anche in questo caso, mi sembra di poter dire che si tratta di un'esigenza che trascende anche la dimensione comunitaria della nostra esperienza di religiosi.

In Mongolia si vive nelle tende, ma ogni tenda la la sua caratterizzazione, il suo piccolo angolo che la rende "quella" tenda, e non un'altra. Credo che questa sia la dimensione che dobbiamo ricercare. Missionari del camper, il "nostro" camper, la nostra casa, ma con quattro ruote sotto per poterla spostare. Non credo che si debba rinunciare a quel tratto molto umano del trovare il nostro angolo, in cui stare bene per fare ciò che dobbiamo fare, per metterci meglio al servizio della missione, sapendoci spostare quando essa ce lo chiede. La leggerezza diventa fondamentale. "Casa" può essere fatta con poche cose, facilmente trasportabili o ricostruibili per aiutarci ad essere domani stabili nel nostro andare. Ho fatto prima l'esempio dell'albero che mettere radici. Se fossimo tutti dei bonsai non avremmo problema ad essere trasportati con il nostro vaso e quel po' di terra in un contesto totalmente diverso.