da "Da Casa Madre", giugno 2014
Mentre questo numero di “Da Casa Madre” esce online, il
Continente Asia IMC vive un momento di fermento tutto particolare. Presso la
nostra comunità di Arveiheer, in Mongolia, si sono appena conclusi gli Esercizi
Spirituali ed è in corso di svolgimento l’Assemblea di tutti i missionari della
Consolata che lavorano in Asia. Da poco si è anche conclusa la visita a Taiwan
che dovrebbe portare tre missionari dell’Istituto a lavorare sull’ "isola bella”
di Formosa. Tutta materia per il prossimo numero, in cui, una volta assimilato
e redatto il materiale del viaggio, si potrà raccontare in dettaglio gli esiti
dei tanti incontri che hanno animato il mese di maggio.
Oggi, preme ricordare le ragioni che stanno alla base di
questi incontri e, allo stesso tempo, raccontare le sensazioni che animano la
Direzione Generale, e in particolare il sottoscritto come Consigliere
incaricato del continente asiatico, nei confronti della nostra missione in
Asia.
Innanzitutto, dobbiamo confessare che quando il Capitolo
Generale ha chiesto all’Istituto di aprirsi con decisione al Continente
Asiatico (XII CG n. 47) e alla Direzione Generale di lavorare ad un Progetto
che aiutasse l’IMC a meglio comprendere la realtà asiatica, tutti noi ci siamo
trovati abbastanza impreparati. Il sottoscritto in modo particolare.
Se il lavoro del Consigliere è quello di offrire consigli
(lapalissiano, forse, ma nella sostanza questa è la realtà) è stata questione
di un attimo realizzare come la mia esperienza passata non mi avrebbe certamente
aiutato più di tanto a svolgere il lavoro che mi attendeva nel migliore dei
modi. Come Direzione, sempre abbiamo constatato ciò che il Capitolo Generale ha
sottolineato con forza: l’Istituto oggi non conosce a sufficienza non soltanto
l’Asia, ma la sua stessa dimensione asiatica. Per ovviare a questo problema era
necessario esporsi alla realtà del continente, e i migliori alleati a questo
scopo non potevano essere che i confratelli che in esso lavorano.
Ecco perché, nel giugno del 2012, la Direzione Generale al
completo ha vissuto un mese intero in Corea, partecipando all’Assemblea
Asiatica che si è tenuta a Incheon, una delle città satellite dell’immensa
periferia di Seul. È stato il primo importante passo verso una conoscenza
reciproca, uno scambio di idee proficuo, un inizio di lavoro insieme,
sintonizzati sulla stessa linea d’onda.
Da quella Assemblea è emersa forte la convinzione che l’Asia
può e deve essere una delle dimensioni in cui si articolerà il futuro dei
missionari della Consolata. Come il nostro Superiore Generale, padre Stefano,
ama ripetere: “L’Asia non ha certamente bisogno dei missionari della Consolata;
siamo noi, oggi, ad avere bisogno dell’Asia per rafforzarci nel nostro carisma
ad gentes, come missionari di prima evangelizzazione”.
Dalla stessa Assemblea sono venuti i criteri per una
possibile nuova apertura e ne è scaturito anche il nome: Taiwan. La scelta di
visitare l’isola e successivamente di eleggerla come possibile nuova
destinazione nasce dal discernimento di quei giorni, sulla base di argomenti
che abbiamo ritenuto essere importanti:
·
la possibilità di aprirsi al mondo e alla
cultura cinese, bisogno imprescindibile, oggi, per un Istituto globale come il
nostro, continuamente esposto all'incontro con “il Dragone” in varie parti del
mondo, non solamente in Asia;
·
la vicinanza geografica e una certa affinità
culturale con le nostre attuali presenze in Asia, tali da poter garantire uno
scambio di esperienze arricchente e proficuo;
·
la possibilità, in un futuro certamente non
prossimo, di poter accedere a studi universitari che possano aiutare la
riflessione dell’Istituto, cosa certamente possibile per la grande offerta
accademica che Taiwan presenta.
Due anni sono trascorsi da allora e possiamo dire che tanta
acqua è passata sotto i ponti. Visitare per la terza volta le nostre comunità
in Corea e Mongolia è stato un segno per i nostri missionari della vicinanza
che la Direzione Generale vuole far sentire loro, ma è stato di grande
beneficio soprattutto per il sottoscritto. Mi ha aiutato a dare un senso alle
letture, un immagine o un volto alle righe di un libro stampato o di un
articolo online. Mi ha aiutato a vedere con occhi diversi realtà che prima
facevo fatica a comprendere: una missione fatta di quotidianità anonime, dove
il missionario non è il protagonista, ma uno dei tanti, se non “lo straniero”. A
chi osserva dall'esterno una realtà complessa come questa è facile non riuscire
a capire, lasciarsi vincere dai pregiudizi, semplificare al massimo i
ragionamenti per poter giudicare. A me, per lo meno, è successo così.
Sia che tu la viva dal di dentro o cerchi di percepirla
dall'esterno, quella in Asia è una missione da scoprire poco alla volta e con
tempi molto lunghi, perché difficili sono le lingue e complesse le culture,
dove si deve assumere obbligatoriamente un passo diverso rispetto a quello a
cui si è abituati in altri continenti. L’Asia fa scoprire il nervo vivo
dell’impotenza, del sentirsi piccoli, sostanzialmente inutili e in alcuni casi
non ben accetti. Sbatte davanti al viso del missionario la moltitudine delle
sue genti, illudendolo con un’abbondanza che questi può sovente soltanto
sbirciare dal portone delle sue chiese vuote.
Bacheca parrocchiale a Taiwan |
Tuttavia, la missione in Asia è anche altro, ed è bene dirlo.
Se mai nel passato abbiamo fatto un errore è stato quello di mitizzare la
missione in Asia e alcune delle sue difficoltà (la durezza nell'apprendere la
lingua coreana, la rigidità del lungo inverno mongolo, la solitudine, solo per
fare qualche esempio) senza sottolinearne abbastanza gli elementi che rendono
questa missione davvero speciale, al punto che ogni missionario dovrebbe essere
invogliato almeno a prendere in considerazione il fatto di potersi cimentare
con queste realtà.
Segnalo alcune cose che colpiscono il sottoscritto, soltanto
come esempio per far capire cosa intendo quando dico che la missione in Asia è
particolare, e proprio perché particolare anche affascinante.
L’aspetto culturale ad esempio, che obbliga colui che va in
Asia a studiare molto per poter capire e riuscire ad orientarsi; per poter
dominare la lingua innanzitutto, ma non solo. Geografia e storia tornano ad
essere materie importanti, come ai tempi della scuola. Bisogna apprezzare il
difetto della curiosità: essere curiosi come lo erano i nostri primi missionari
e come altre volte lo siamo stati nel corso della nostra storia centenaria,
quando ci siamo trovati di fronte all'altro e alla sua differenza.
All’elemento culturale si interconnette l’aspetto religioso.
Come può un missionario non trovarsi a suo agio in un contesto dove miliardi di
persone credono in un qualcosa o in qualcuno che si presenta in forme per te
irriconoscibili… ? Come può non incuriosire e affascinare una persona che, in
tutta naturalezza, si sposta da un piano metafisico taoista, si comporta
eticamente come un
confuciano, assume una religiosità e una spiritualità che hanno a che vedere con il buddhismo, paga l’offerta a un paio di dei locali e fa una piccola devozione anche di fronte all’immagine della Madonna, se per caso capita sul suo cammino?
Brilla quindi la domanda da centomila punti per il missionario di oggi, ormai non soltanto in Asia, mi pare di poter dire: “In tutto questo cocktail di religioni, al grande supermercato del sacro, come presentare e testimoniare Gesù in modo comprensibile, credibile, non confondibile e magari anche “assumibile” nella sua interezza? “. Il missionario dovrebbe trovare le proprie motivazioni in un contesto come questo.
Chiaramente bisogna iniziare a leggere la complessità come
una provocazione, non necessariamente come un problema; dobbiamo imparare tutti
a vedere l’esperienza di missione in Asia come una possibilità di arricchimento
e non come una penalizzazione delle nostre capacità e delle nostre risorse. Il
fare ciò esige una spiritualità profonda, radicata e vissuta, visibile. È davanti a questo elemento che mi interrogo in
modo più convinto e su cui, credo, si debba dirigere gran parte della nostra
riflessione, oggi. A questo aspetto, ad
esempio, appartengono anche la dimensione comunitaria e l’importanza del
formarsi e venire formati ad una missione di questo tipo, tanto nella fase
preparatoria come in loco.
Quest’ultimo punto ci dice come il leggere il grande libro
dell’Asia aiuti ad aprire gli occhi anche su alcuni aspetti che toccano la
nostra vita di Istituto. Ad esempio ci aiuta a mettere in discussione il fatto
che noi ci professiamo missionari ad gentes per l’evangelizzazione dei non
cristiani, ma nella maggior parte dei casi non lavoriamo in contesti che
giustifichino questa definizione. Oppure, ci si può interrogare sulla realtà
della nostra formazione di base, chiedendoci se davvero essa formi a una missione
di prima evangelizzazione, oppure no. Infine, ci si può chiedere anche che struttura
di Istituto si dovrà prevedere per accogliere una realtà missionaria che rimarrà
sempre (o, visto che non si può predire il futuro, almeno per molto tempo) una
galassia frammentata di piccole comunità.
La ragione del viaggio si nasconde anche dietro a queste
domande, ma non soltanto. Era importante concretizzare alcuni aspetti della
nostra futura apertura a Taiwan e condividere l’esperienza degli Esercizi
Spirituali e di una seconda Assemblea del Continente che porti alla Consulta le
gioie e i dolori del vivere e lavorare in Asia. È tradizione per i missionari
del continente vivere insieme un momento di spiritualità, condivisione e
formazione permanente. Lo fanno da sempre, dalla nascita della nostra presenza
in Mongolia e questo atteggiamento è servito a vivere alcune dimensioni della
continentalità che l’Istituto auspica per tutti i continenti.
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