Torno per la terza volta in Mongolia, nel breve spazio di
due anni. Vi sono cose che uno giocoforza inizia a riconoscere. L'odore, per
esempio. Lo avverti all'aeroporto facendo la coda davanti agli sportelli
dell'immigrazione, lo senti per le scale del condominio dove abitano i nostri,
lo percepisci per la strada pur essendo un odore di chiuso che diventa ancora
più forte nel bus che da Ulaan Baatar ci porta ad Arveiheer. 400 chilometri,
sette ore, che diventano otto a causa delle condizioni della strada. Non si può
definire, si può soltanto fare come i Sommeiller con il vino, anche se
preferirei piuttosto mettere il naso in un calice di Barbaresco. Sa di tabacco,
di legna umida bruciata, di feltro bagnato... non si può definire: è fragranza
mongola.
Il viaggio ad Arveiheer lo faccio per la prima volta su un
bus di linea: di linea retta, perché di curve ce ne sono poche. Siamo in undici
questa volta, un "gruppo vacanze" come mi capita raramente di trovare
o di formare. Due suore e nove preti, tutti turisti, come dobbiamo ripetere a
mo' di mantra affinché la nostra risposta quadri con il VISA che abbiamo
ricevuto. I mongoli non vanno tanto per il sottile in fatto di visti,
soprattutto per chi permane sul territorio. La paura di essere invasi da
commercianti, multinazionali minerarie e predicatori stranieri ha fatto loro
stringere le maglie della burocrazia e li ha resi severi con gli stranieri che
chiedono i lavorare nel loro paese. Si possono anche capire: tre milioni di
abitanti sparsi su un terreno grande cinque volte l'Italia si possono anche
disperdere, mimetizzandosi con il resto della popolazione.
Oggi, neppure il panorama riesce a tenere completamente
svegli. Ci riescono di più le risate dei viaggiatori che guardano le pantomime
che la tele a circuito chiuso propone sena sosta. Ogni tanto l'autista li
intervalla con pezzi di musica mongola e la situazione migliora un pochino.
Oddio, il simil-pop mongolo fa rimpiangere le scenette stile parrocchiale di
prima, ma alcuni brani di musica tradizionale, con gli sfondi paesaggistici da
guida turistica si fanno ascoltare con piacere.
Ogni tanto mi metto le cuffiette e mi ascolto un po' della
musica portata da casa. Il desiderio di inculturazione sarebbe forte, ma a
tutto c'è un limite invalicabile, armonicamente rappresentato dal simil-pop di
cui sopra. Per fortuna c’è Haya nel mio repertorio. Haya è una band cinese,
della Mongolia interna, regione politicamente sotto il governo di Pechino. La
sua cantante, Daiquing Tana, ha una voce stupenda e offre una bella reinterpretazione
in chiave moderna delle melodie mongole classiche. Ascoltare la struggente
"Silent Sky" mentre si attraversa la steppa, in questo scenario dove
le nuvole toccano la terra è un'esperienza che consola e mi rassicura ancora
una volta sul fatto che "viaggiare" è una delle esperienze più ricche
e profonde che si possono vivere e devo essere grato per avere l'opportunità di
farlo in luoghi così unici.
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