martedì 20 maggio 2014

Silent Sky

Torno per la terza volta in Mongolia, nel breve spazio di due anni. Vi sono cose che uno giocoforza inizia a riconoscere. L'odore, per esempio. Lo avverti all'aeroporto facendo la coda davanti agli sportelli dell'immigrazione, lo senti per le scale del condominio dove abitano i nostri, lo percepisci per la strada pur essendo un odore di chiuso che diventa ancora più forte nel bus che da Ulaan Baatar ci porta ad Arveiheer. 400 chilometri, sette ore, che diventano otto a causa delle condizioni della strada. Non si può definire, si può soltanto fare come i Sommeiller con il vino, anche se preferirei piuttosto mettere il naso in un calice di Barbaresco. Sa di tabacco, di legna umida bruciata, di feltro bagnato... non si può definire: è fragranza mongola.
Il viaggio ad Arveiheer lo faccio per la prima volta su un bus di linea: di linea retta, perché di curve ce ne sono poche. Siamo in undici questa volta, un "gruppo vacanze" come mi capita raramente di trovare o di formare. Due suore e nove preti, tutti turisti, come dobbiamo ripetere a mo' di mantra affinché la nostra risposta quadri con il VISA che abbiamo ricevuto. I mongoli non vanno tanto per il sottile in fatto di visti, soprattutto per chi permane sul territorio. La paura di essere invasi da commercianti, multinazionali minerarie e predicatori stranieri ha fatto loro stringere le maglie della burocrazia e li ha resi severi con gli stranieri che chiedono i lavorare nel loro paese. Si possono anche capire: tre milioni di abitanti sparsi su un terreno grande cinque volte l'Italia si possono anche disperdere, mimetizzandosi con il resto della popolazione.
Oggi, neppure il panorama riesce a tenere completamente svegli. Ci riescono di più le risate dei viaggiatori che guardano le pantomime che la tele a circuito chiuso propone sena sosta. Ogni tanto l'autista li intervalla con pezzi di musica mongola e la situazione migliora un pochino. Oddio, il simil-pop mongolo fa rimpiangere le scenette stile parrocchiale di prima, ma alcuni brani di musica tradizionale, con gli sfondi paesaggistici da guida turistica si fanno ascoltare con piacere.

Ogni tanto mi metto le cuffiette e mi ascolto un po' della musica portata da casa. Il desiderio di inculturazione sarebbe forte, ma a tutto c'è un limite invalicabile, armonicamente rappresentato dal simil-pop di cui sopra. Per fortuna c’è Haya nel mio repertorio. Haya è una band cinese, della Mongolia interna, regione politicamente sotto il governo di Pechino. La sua cantante, Daiquing Tana, ha una voce stupenda e offre una bella reinterpretazione in chiave moderna delle melodie mongole classiche. Ascoltare la struggente "Silent Sky" mentre si attraversa la steppa, in questo scenario dove le nuvole toccano la terra è un'esperienza che consola e mi rassicura ancora una volta sul fatto che "viaggiare" è una delle esperienze più ricche e profonde che si possono vivere e devo essere grato per avere l'opportunità di farlo in luoghi così unici.


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