giovedì 1 maggio 2014

Home sweet home

Il missionario dovrebbe essere distaccato da tutto, pronto a partire "alla bisogna", seguendo una vocazione che non ammette il guardarsi indietro. Il Vangelo in alcuni punti fa sua questa esigenza di itineranza e distacco, concetto che viene ripreso anche dal "Manuale delle giovani marmotte" ad uso del missionario. A volte, però, anche senza cercarle, arrivano ogni tanto delle piccole consolazioni. Bello è stato rientrare nella nostra casa regionale di Yeokgok dopo circa un anno e ritrovare la stanza che avevo utilizzato così come l'avevo lasciata un anno prima (beh, qualcuno una spazzata gliela aveva pur data, grazie al cielo), persino il letto era stato lasciato nel punto in cui l'avevo spostato perché mi dava l'idea di una maggior praticità. Internet è entrato immediatamente in funzione, visto che tutta la strumentazione ne ha riconosciuto una password precedentemente memorizzata.
Sono cose sciocche, capisco, ma che fanno riflettere su una delle eterne questioni della spiritualità missionaria, soprattutto nel momento in cui, come nel nostro caso, questa si coniuga con la vita religiosa. Il punto è quello di trovare un giusto equilibrio fra stabilità e itineranza. Da una parte il missionario è chiamato ad andare, dall'altra si è portati a fare casa, a costruirsi uno spazio, a segnare un terreno. Certamente, se si vuole portare a termine un progetto si esige il dare una stabilità anche al personale, non soltanto alle cose. Ed ecco che il mettere radici fa crescere l'albero in un determinato posto, più difficile da spostare. Ma al di là delle ragioni funzionali, esistono degli ancoraggi che potremmo definire esistenziali. Lo percepisco nella mia esperienza personale, in modo particolare in questi anni in cui, per il servizio che sono chiamato ad offrire, devo viaggiare molto. Parto ancora volentieri, per fortuna ma, forse è una esperienza condivisa da molti, ho bisogno di "fare casa" lì dove arrivo. E' chiaro che una vita comunitaria piena, ben vissuta, aiuterebbe non poco a trovare con più facilità questo equilibrio, Tuttavia, anche in questo caso, mi sembra di poter dire che si tratta di un'esigenza che trascende anche la dimensione comunitaria della nostra esperienza di religiosi.

In Mongolia si vive nelle tende, ma ogni tenda la la sua caratterizzazione, il suo piccolo angolo che la rende "quella" tenda, e non un'altra. Credo che questa sia la dimensione che dobbiamo ricercare. Missionari del camper, il "nostro" camper, la nostra casa, ma con quattro ruote sotto per poterla spostare. Non credo che si debba rinunciare a quel tratto molto umano del trovare il nostro angolo, in cui stare bene per fare ciò che dobbiamo fare, per metterci meglio al servizio della missione, sapendoci spostare quando essa ce lo chiede. La leggerezza diventa fondamentale. "Casa" può essere fatta con poche cose, facilmente trasportabili o ricostruibili per aiutarci ad essere domani stabili nel nostro andare. Ho fatto prima l'esempio dell'albero che mettere radici. Se fossimo tutti dei bonsai non avremmo problema ad essere trasportati con il nostro vaso e quel po' di terra in un contesto totalmente diverso.

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